Apertura Mentale
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È ormai noto come la percezione dell'arte marziale da parte del
praticante-insegnante, dai primi anni Settanta in poi, sia andata evolvendosi
da un atteggiamento passivo-accettante ad un atteggiamento attivo-modificante.
In linee generali si può affermare che da una mera riproduzione
degli schemi proposti dalla tradizione si sia passati ad una loro valutazione
critica e al loro adattamento alle esigenze del discente (parametri antropomorfici,
rapporto obiettivo-efficacia, etc.). Questo passaggio inteso talvolta
come allontanamento dai dettami 'canonici' è stato poi accettato
dai più come riscoperta del carattere di estrema flessibilità
connaturato allo spirito marziale. Da questo atteggiamento consegue una
più positiva apertura agli scambi interdisciplinari tra arti e
stili diversi. Anche in questo ambito è ravvisabile un mutamento
tra vecchi e nuovi approcci: se in passato l'arricchimento del proprio
bagaglio di conoscenze tecniche implicava quasi naturalmente la pratica
di una disciplina parallelamente all'altra, oggigiorno viene ritenuta
altrettanto proficua la conoscenza del 'nuovo' attraverso l'interiorizzazione
e l'elaborazione dei principi cognitivi, di pensiero, che lo governano.
Viene abbandonata l'idea di un bagaglio tecnico stratificato a vantaggio
di un patrimonio strutturato di principi dei quali la tecnica ne rappresenta
il contesto applicativo. Tutto questo non inficia ovviamente il valore
della pratica, che è lo stimolo primo per l'elaborazione del principio
e ne è il successivo e fondamentale passo per l'assimilazione.
È possibile, risalendo ad un piano d'analisi generale, affermare
che tutte le discipline marziali hanno alla loro base alcuni principi
comuni che a loro volta costituiscono la base di alcuni meccanismi d'apprendimento
e relazionali; si può infatti ritenere aggressione e difesa i due
elementi imprescindibili di ogni relazione umana o di ogni processo di
conoscenza: è possibile definire l'aggressione come tentativo -
involontario o indotto - da parte della 'novità' di mutare il nostro
o altrui equilibrio e intendere la difesa come ripristino o dell'equilibrio
primitivo (rifiuto della novità), oppure di un nuovo equilibrio
ristabilito dopo l'elaborazione e l'assimilazione del nuovo concetto.
Gli stessi meccanismi psichici e mentali attivati dall'irrompere della
novità destruente (per esempio il ricondurre lo sconosciuto alle
categorie del conosciuto) suggeriscono una difesa che si struttura come
'associazione' in risposta a una 'dissociazione'. I praticanti di Aikido
sanno come questo si traduca anche sul piano fisico: quanto sia utile
non opporre la propria forza contro la forza dell'avversario, ma 'dissociare'
la forza dell'aggressore rendendola inoperante o deviarla rivolgendola
verso la sua stessa origine; operazione possibile solo se l'aggredito
è 'associato' nelle sue componenti psicofisiche o se è comunque
in grado di ripristinarle.
È interessante, a questo punto, verificare la validità
di queste premesse attraverso un tentativo di comparazione tra arte marziale
e metodi di apprendimento di tipo cognitivo, sempre più adottati
da alcune componenti delle società moderne (corpi militari d'élite,
dirigenti d'azienda, etc.) come percorsi di auto-conoscenza finalizzati
al miglioramento delle prestazioni. Quasi sempre, nell'economia dei percorsi
formativi occidentali, le discipline marziali orientali sono considerate
quale ulteriore ampliamento della concezione dell'essere la cui adesione
invita ad atteggiamenti meditativi; posti in secondo piano o come conseguenti
a quella visione del sé appaiono gli aspetti legati alla pratica.
Il considerare invece ogni atto nella quale la pratica si sostanzia come
frutto di un pensiero volontario, o comunque indotto, sul quale poter
agire strutturalmente, ne rivela la reale valenza cognitiva, al di là
di ogni supporto o matrice 'filosofica'.
Alcune delle teorie cognitiviste più accreditate (in nuce in quelle
di Piaget, Brunner e Vygotskij, e poi in esteso in Feuerstein) sostengono
che per un 'pieno' apprendimento non sia sufficiente essere esposti a
stimoli molteplici, ma che fra gli stimoli e il soggetto si ponga un 'mediatore'
che li scelga, li orienti, ne regoli l'intensità e la frequenza
(E.A.M., Esperienze di Apprendimento Mediatizzato). Non è improprio
già qui stabilire un'identità tra la funzione del 'mediatore'
e la funzione del sensei. Da questa mediazione dipenderebbero la qualità
della relazione, la possibilità di superare blocchi psicologici
e la possibilità di suscitare motivazioni intrinseche: valori che
- prima di conoscere le suddette teorie - già si presupponevano
o si auspicavano trasmissibili dal maestro agli allievi.
Per questi metodi (in particolare per il Programma di Arricchimento Strumentale
di Feurstein) diventa necessario 'apprendere ad apprendere', essere capaci
di evidenziare processi, strategie mentali, essere capaci di estrapolare
regole generalizzabili e trasferibili in altri contesti, essere in grado
di trovare relazioni implicite tra idee, eventi, oggetti. Ogni marzialista
non potrebbe dagli obiettivi del suo percorso di studio esigere di meglio.
Ma per queste teorie cognitiviste attraverso quale apparato tecnico questa
mediazione è possibile? Esse prevedono lo svolgimento di esercizi
con livelli di difficoltà graduata che si configurano in certa
misura come archetipi, affinché sia possibile trarne insegnamenti
e generalizzazioni da trasporre poi in situazioni problematiche che abbiano
analogie strutturali con i modelli che essi illustrano: s'impone qui un
paragone con la funzione e l'utilità dello studio delle 'forme',
dei kata delle discipline marziali codificate, talvolta erroneamente valutati
dai non addetti come vacua e inefficace simulazione. Di simulazione certamente
si tratta, ma nell'accezione più completa fornita dalle definizioni
degli studiosi di tecniche simulative evolute e che si esprimono compiutamente
nella crescente adesione al reale che gli esercizi della disciplina marziale
prevedono nei loro diversi gradi (forme, combattimento dichiarato, combattimento
libero); attraverso di esse, per esempio, l'apprendimento trae un rinforzo
dalla ripetizione, diviene tanto più efficace se più facoltà
vengono coinvolte nell'esercizio e se l'insoddisfazione per il risultato
raggiunto coinvolge nell'intimo l'individuo.
Buona parte dei metodi cognitivi infine, intesi come processi in divenire,
rifiutano una loro identificazione di metodi di accertamento 'fotografico'
delle risorse e delle potenzialità del singolo. Anzi, tramite un
processo di autodiagnosi dinamica, le propensioni del soggetto devono
essere evidenziate, sviluppate e integrate. È anche qui possibile,
senza forzature, stabilire un ambito comune con l'allenamento costante
al quale un marzialista si sottopone, nella consapevolezza che solo un
apprendimento continuo crei e rinnovi continuamente le risorse psicofisiche
che un essere umano, nell'arco della propria vita, possiede in intensità
variabile, e alle quali la tecnica - al contrario del principio - è
chiamata costantemente ad adeguarsi. L'autodiagnosi che l'allievo (nell'accezione
di colui che continuamente apprende, e quindi anche il maestro) è
chiamato a svolgere consiste nel raggiungimento di una consapevolezza
critica, discriminante, sui propri pensieri, sulle proprie reazioni ed
emozioni, sulle proprie capacità e azioni.
Anche da queste brevi e succinte considerazioni il percorso cognitivo
che il praticante di arti marziali è chiamato ad intraprendere
su indicazioni fornite dalla disciplina e dal suo tramite (sensei), strutturato
su versanti concettuali, tecnici e comportamentali, emerge nelle sue potenzialità
di processo auto-conoscitivo progressivo e progettuale.
A.U.
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